Fermentazioni spontanee: quando e perché

Lezione di arte bianca n. 53

Quando si parla di fermentazioni, si fa un preciso riferimento a un processo metabolico operato da microrganismi che esistono da sempre. L’attività e il ruolo dei microbiologi si trasformarono, attraverso i secoli, a tal punto da diventare non più “cacciatori” ma “cercatori” di microbi (Prof. Giorgio Ottogalli) per scopi biotecnologici sempre  più performanti, soprattutto nel settore alimentare: vegetali lattofermentati, settore caseario, vinicolo, birrario, panificazione, salumi ecc.

E’ lapalissiano, proprio per le attuali conoscenze scientifiche, tecnologiche e microbiologiche alimentari, che quando si parli di fermentazioni spontanee in un ambito industriale ci si riferisca a fermentazioni specifiche operate da microrganismi che inizialmente sfruttano una proliferazione microbica autoctona, ma che si evolvono e modificano nel tempo per l’additivazione volontaria sia di microrganismi selezionati sia di sostanze chimiche, Sali, ecc., che bloccano l’attività microbica non desiderata.

“Le fermentazioni spontanee nella biotecnologia alimentare si usano da che c’è storia” – VERISSIMO… ma è altrettanto vero che la loro “sicurezza” microbiologica dipende da come si conduce il processo, dagli starter microbiologici, additivi chimici e ingredienti utilizzati, dallo stato igienico delle matrici utilizzate, personale, attrezzature, temperatura, pH, ecc.

La microbiologia alimentare è da circa 200 anni che è orientata con pari enfasi a studi riferiti sia ai microrganismi patogeni sia a quelli trasformatori presenti negli alimenti.

Le attività sono quindi complementari proprio perché:

  1. Si tratta di un prodotto alimentare per il quale si deve sempre e obbligatoriamente garantire la “sicurezza” e la “salubrità”.
  2. I microrganismi, nell’ecosistema – alimento, coabitano e interagiscono con dinamiche ed equilibri molto eterogenei e complessi, la cui specificità non sempre è ben compresa
  3. La matrice alimentare è un ottimo terreno di coltura per qualsiasi forma microbica se non controllata.

Prendendo come riferimento la microflora blastomicetica presente sugli acini di uva, una matrice vegetale tanto usata nella tecnica nota come fermentazione spontanea – Wild Yeast Water – si può affermare che proprio perché “spontanea” dipende da numerosi fattori quali: geografia, età del vigneto, tipologia del suolo, cultivar, tecnica di raccolta, maturazione, stato sanitario, ecc. Oltre alle specie di Saccharomyces presenti vanno menzionati i lieviti apiculati (generi Hanseniaspora, Nadsonia, Wicherhamiella, Saccharomycode), Metschnikowia (in particolare M. pulcherrima), Candida (in particolare C. stellata), Dekkera, Schizosaccharomyces, Torulaspora, Zigosaccharomyces, Hansenula, Pichia, ecc., specie fungine fitopatogene della vite, batteri lattici (LAB) del genere Lactobacillus, Pediococcus, Leuconostoc, muffe, ecc.

In vinificazione, tutte queste specie coabitano in un complesso ecosistema fermentante che porta al sopravvento di una o più specie (non sempre quelle che si sviluppano per prime saranno le dominanti!) la cui selezione specifica è “facilitata” dall’inoculo microbiologico volontario (lieviti, batteri lattici, ecc.), dall’additivazione di anidride solforosa e da altre pratiche specifiche che bloccano, a un certo punto del processo vinicolo, lo sviluppo indesiderato delle specie non atte allo scopo. La pratica delle fermentazioni spontanee in vinificazione per opera dei lieviti selvaggi è comunque sempre più in disuso a favore delle fermentazioni guidate con lieviti selezionati.

Facendo riferimento invece alle verdure lattofermentate come i “crauti” o “erba acida”, anche in questo caso, i microorganismi che determinano la fermentazione spontanea iniziale sono soprattutto quelli endogeni del cavolo stesso. Ai cavoli tritati si aggiunge una soluzione salina concentrata al 2,5-2,8% (25-28 g sale/l acqua) il cui scopo è di inibire in primis lo sviluppo dei batteri Gram negativi, favorire lo sviluppo dei batteri lattici che sono essenzialmente Leuconostoc mesenteroidesLactobacillus plantarum e Lactobacillus brevis e di disidratare la matrice vegetale. Leuconostoc mesenteroides ha una potente azione acidificante poiché metabolizza gli zuccheri (glucosio e fruttosio) presenti nelle foglie e liberati nel mezzo acquoso in conseguenza del taglio. La loro attività cessa quando, durante la macerazione, il mezzo raggiunge un’acidità pari a 0,8-1%. In queste condizioni Lactobacillus plantarum e Lactobacillus brevis non sono ostacolati e possono ulteriormente acidificare il mezzo.

Nel settore caseario, invece, si utilizzano colture starter d’innesto, selezionate e aggiunte a materie prime “risanate” da un trattamento termico prima dell’inoculo e sotto rigoroso controllo dei parametri di processo (temperatura, sale, pH, concentrazione di ossigeno, sostanze nutritive, UR ambientale, forma, ecc.) per garantire la sopravvivenza e la vitalità dello starter inoculato. Le diverse tecnologie di produzione e alcuni ingredienti aggiunti come il sale, selezionando le specie e i biotipi microbici, condizionano il loro sviluppo e la loro lisi, differenziando la qualità delle diverse tipologie di formaggio. La microflora del latte crudo, verificata scrupolosamente e proveniente da allevamenti sani, quella degli starter e quella che si trasferisce dagli ambienti di produzione e stagionatura sono le responsabili del processo di caseificazione e del flavour tipico dei formaggi.

Nel settore del pane e dei prodotti da forno, quando si parla di fermentazioni spontanee, ci si riferisce alla microflora specifica e stabile della madre – sourdough – che, da letteratura scientifica universalmente riconosciuta, è ascrivibile, nella stragrande maggioranza dei casi, a una cultura dominate di LAB rispetto ai lieviti in un rapporto 100:1. Lactobacillus sanfranciscensis (sinonimo L.brevis  subsp. Lindneri ),  L. plantarum  e  L. brevis  L. pontis  ecc.,  sono i lattobacilli più frequentemente isolati.  Tra i lieviti il Saccharomyces cerevisiae è il più frequente oltre a S. exiguus (stato imperfetto Torulopsis holmii o Candida holmii, fisiologicamente simile a C. milleri), e C. krusei, Pichia norvegensis e Hansenula anomala ecc.  E’ una microflora stabile, sicura, unica, autoctona che si è naturalmente selezionata nel tempo dalla microflora iniziale durante i ripetuti rinfreschi della madre e si mantiene stabile per le complesse sinergie microbiche tra i LAB e i lieviti.

Ora, è molto offensivo per tutti gli operatori del settore e non, foodblogger compresi, anche solo pensare di paragonare la sicurezza microbiologica delle fermentazioni spontanee industriali (la cui “sicurezza” è garantita proprio dalla presenza di sale, trattamenti termici, inoculi altamente selezionati, additivazione di anidride solforosa, condizioni operative rigorose ecc.) o ancora la specificità, il naturale ecosistema  microbiologico e la stabilità del microbiota di un lievito di pasta acida o madre, la cui microflora e gli equilibri microbici sono studiati da più di 50 anni, con la tecnica modaiola, markettiana, artigianale, casalinga, casuale delle acque in fermentazioni spontanee Wild Yeast Water la cui eterogeneità microbica è incontrollata (gli artigiani pizzaioli e panificatori non hanno né la strumentazione microbiologica -analitica né le competenze per farlo), non verificata e pericolosa sotto tutti i punti di vista.

Basta credere al marketing fumoso e generalista “le fermentazioni spontanee sono sicure e si usano da sempre” perché i prodotti fermentati industriali sono ben altre realtà, ben altre sicurezze microbiologiche e non si possono assolutamente paragonare a una gestione incontrollata casalinga o artigianale.

Dott.ssa Simona Lauri

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Senza lievito, ma quando?

Lezione di arte bianca n. 74

A settembre 2020 come testata giornalistica abbiamo pubblicato un articolo a firma C. Pressore studente STA (lo trovate a questo link https://www.quotidiemagazine.it/archivio/2020/numero-9-settembre-2020/vegetali-fermentati-claudio-pressore-studente-sta/articolo_view) nel quale si sottolineava come le tanto sbandierate fermentazioni spontanee fossero effettivamente  note dalla notte dei tempi ma nel contempo altrettanto, dalla stessa notte dei tempi,  sotto poste a processi  tecnologici atti a prevenire lo sviluppo di una microflora alterante.

Questo discorso vale per tutti gli ambiti ma soprattutto per frutta e verdura in cui si lavora con una microflora endogena, tanto varia quanto poco conosciuta al grande pubblico, rispetto ai “classici” e noti patogeni .

Parlare di sicurezza igienica assoluta nelle incontrollate fermentazioni spontanee (in qualsiasi ambito alimentare ci si voglia riferire) è una forzatura scientifica  grave salvo che non ci si riferisca a fermentazioni spontanee, stabilizzate e rigorosamente controllate da un punto di vista microbiologico e produttivo mediante, per esempio, specifici inoculi salini (salamoia), starter microbici, additivi, impiego di acidi, regolazione di temperatura ecc.

Ogni fermentazione spontanea ,che parta come tale nel settore alimentare (pane, pizza compresa), subisce nell’arco delle ore una modifica della microflora fino all’ottenimento della stabilità microbica specifica e desiderata  per quel particolare prodotto e profilo sensoriale.

Nell’ambito della specificità e complessità della microbiologia enologica tanto citata (qualche volte a sproposito) proprio quando si faceva riferimento a particolari tecniche, adottate nel settore dell’Arte Bianca, per usare gli illeciti claim “senza lievito” o “senza lievito aggiunto”, sono un chiaro esempio di come la spontaneità microbica sia variabile e si evolva con il passare del tempo.

In realtà, l’iniziale e generica “fermentazione spontanea” in enologia non è altro che un processo microbiologico molto complesso, che dipende, oltre che dalla composizione chimica del mosto, dall’intervento simultaneo di microrganismi fisiologicamente e biochimicamente differenti, rappresentati da lieviti, muffe, batteri (principalmente lattici e acetici) che si trovano sulla superficie esterna degli acini; si stima che sulla superficie dei grappoli la popolazione microbica raggiunga valori di 103-105 UFC/g.

In generale, la concentrazione cellulare dei lieviti riscontrati sugli acini immaturi è piuttosto bassa (10-103 UFC/g), ma con il progredire della maturazione la popolazione raggiunge 104-106 UFC/g.

 

La biodiversità e la carica dei microrganismi in vigneto e quindi sulle uve sono fortemente dipendenti da:

  • Stato sanitario delle uve,
  • Temperatura
  • Trattamenti antiparassitari effettuati

 

Sui grappoli maturi Hanseniaspora spp. (e la sua forma imperfetta Kloeckera) e Metschnikowia spp. sono i lieviti predominanti, rappresentando il 50-75% circa della popolazione blastomicetica totale.  Numericamente meno prevalenti di questi lieviti sono le specie di Candida (C. zemplinina), Debaryomyces, Dekkera, Issatchenkia, Kluyveromyces, Pichia, Rhodotorula, Saccharomycodes, Schizosaccharomyces, Cryptococcus, Sporidiobolus, Torulaspora e Zygosaccharomyces.

Il più noto agente della fermentazione alcolica, il S. cerevisiae è, invece, presente inizialmente in concentrazioni molto basse.

I fattori che potrebbero spiegare la diversa frequenza delle specie sono rappresentati da:

 

– Compatibilità per fattori di tipo fisiologico e biochimico delle diverse specie con la composizione chimica della superficie delle uve (ad esempio l’adesione attraverso la pruina e la capacità di metabolizzare i composti presenti).

 

– Tolleranza agli  stress ambientali, come la temperatura, l’irradiazione, la luce solare, la siccità.

 

– Tolleranza a sostanze inibitorie di natura chimica, provenienti dal grappolo stesso oppure ritrovate in seguito all’impiego di composti chimici in agricoltura.

 

– Fenomeni d’interazione con altre specie (lieviti, batteri e funghi filamentosi) soprattutto lievito-lievito.  Questo è, per esempio, il caso del lievito M. pulcherrima, molto frequente sulle uve, che svolge un’azione inibitrice nei confronti di numerosi microrganismi, a seguito della produzione di un pigmento insolubile (pulcherrimina), che impoverisce il mezzo di ferro.  La sua azione antimicrobica è esercita su molti specie ma non su S. cerevisiae.

 

In conseguenza di ciò, solo nelle primissime ore di fermentazione, nel mosto ci si aspetta di ritrovare, come microflora dominante, la stessa presente sulle uve. Con il passare dei giorni, questa varierà sensibilmente dall’”ammostatura” fino alla fase finale di “dominio del S. cerevisiae”, generando una microflora evolutiva completamente differente da quella iniziale.

Ecologicamente, l’intero processo prevede lo sviluppo sequenziale di alcune specie di lieviti, che saranno man mano sostituite con altre più adatte in funzione della modifica delle condizioni del substrato, fino a quando non si creerà lo status ottimale per lo sviluppo solo di poche specie, in prevalenza S. cerevisiae.

Nella fase intermedia cioè quella a “dominio non Saccharomyces “ si alternano specie in base alla differente resistenza all’etanolo.  M. pulcherrima soccombe oltre il 4-5% di etanolo, mentre alcune specie di Candida e soprattutto H. uvarum possono sopravvivere fino al 6-8%.   A  queste  concentrazioni inizia  la rapida crescita di S. cerevisiae che diventerà gradualmente la specie dominante.

 

La matrice mosto-vino  ospita, in realtà, una biodiversità microbica molto variegata.

Durante la trasformazione del mosto d’uva in vino numerose specie di lieviti e batteri con metabolismo specifico intervengono nelle varie fasi del processo e concorrono a questa trasformazione.

Durante il processo di vinificazione questa biodiversità tende inesorabilmente a ridursi e dalle numerose specie presenti sulla superficie dell’uva  nelle prime fasi fermentative si passa a una progressiva diminuzione del loro numero, con l’aumentare del tenore di etanolo che rappresenta il principale fattore limitante durante la fermentazione.

 

Inoltre, l’aggiunta di anidride solforosa svolge un’ulteriore e importante azione selettiva, inibendo in particolar modo i microrganismi ossidativi indesiderati.

In questa matrice, con il procedere della fermentazione si assiste alla diminuzione dei lieviti non-Saccharomyces, con la predominanza di S. cerevisiae al termine del processo.

Con l’aumento della concentrazione alcolica nel mosto in fermentazione, le condizioni ambientali diventano progressivamente più restrittive per lo sviluppo dei lieviti non-Saccharomyces, consentendo in tal modo ai lieviti del genere Saccharomyces, dotati di un maggiore potere alcoligeno, di prendere il sopravvento e di portare a termine il processo fermentativo.

I lieviti più alcoligeni sono quelli sporigeni e fra questi, in particolare, i ceppi vinari della specie S.cerevisiae, che per la maggior parte esibiscono potere fermentativo superiore a 14% di etanolo.

I fattori quindi che influenzano l’evoluzione dei lieviti possono essere di diversa natura:

 

  • Chimica: pressione osmotica, nutrienti, zuccheri, anidride solforosa, composti dell’azoto, ossigeno, vitamine, elementi minerali, acidi organici, metaboliti, etanolo, CO2, acidi organici;
  • Fisica: temperatura, pressione osmotica;
  • Biologica: composizione della popolazione iniziale, interazioni con altri microrganismi in particolare mediante il quorum sensing e i meccanismi cellula – cellula.

 

Tornando quindi alle affermazioni iniziali e ai cliam tanto abusati quanto illeciti, siete proprio sicuri che, in panificazione, la frutta (uva, ecc.) fermentata nelle bottiglie/vasi con acqua zuccherata con la tecnica Wild Yeast Water non contenga “lieviti”?

Le evidenze microbiologiche enologiche e i verbali fatti ai professionisti artigiani panificatori e pizzaioli raccontano tutta un’altra storia. Basta con le buffonate scientifiche del “senza lievito”, del “senza lievito aggiunto” e delle “fermentazioni spontanee” in arte bianca; nel settore alimentare tutte sono tecnicamente delle fermentazioni spontanee.

 

https://www.researchgate.net/publication/327744822_I_lieviti_dell’habitat_viticolo-enologico

Dott.ssa Simona Lauri

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